Rappresentazioni fungine nell’arte greca
Giorgio Samorini e Gilberto Camilla
Annali del Museo Civico di Rovereto
vol. 10, pp. 307-326, 1995
Riassunto - Le fonti letterarie antiche sono cosparse di riferimenti che
riguardano la conoscenza e l’utilizzo di vegetali psicoattivi presso gli
antichi Greci. Piante e funghi allucinogeni, noti per la proprietà di indurre
nell’uomo, attraverso una modificazione del suo stato di coscienza, profondi
momenti di ispirazione, di ‘illuminazione’ e di estasi, sono il soggetto di
diversi eventi mitologici, pseudo-storici e storici della civiltà greca
classica e pre-classica, tramandatici dagli Autori antichi. Una tale conoscenza
si rispecchia e, al contempo, trova una valida conferma nella documentazione
archeologica, particolarmente nell’arte plastica e in quella vascolare. Nel
presente articolo, gli Autori focalizzano la ricerca sul rapporto della cultura
greca con i funghi allucinogeni, e propongono una rassegna delle testimonianze
più significative tratte dalla letteratura antica, che evidenziano la
conoscenza di questo particolare ‘cibo degli dei’, insieme a un’analisi
critica delle ricerche sino ad oggi sviluppate a tal riguardo. Vengono discussi
i pochi reperti archeologici per i quali sono state avanzate in precedenza
interpretazioni di carattere micologico ed etnomicologico, e la discussione
viene estesa ad altri reperti per i quali questa interpretazione viene qui
proposta per la prima volta. Viene dato particolare rilievo alla mitologia e ai
culti dionisiaci, quale principale e più probabile elemento della cultura greca
associato alla conoscenza e all’utilizzo dei funghi allucinogeni.
Le profonde esperienze religiose di natura estatica e ‘rivelatoria’,
conseguenti a una modificazione della coscienza ordinaria, sono comuni a tutte
le religioni. Queste esperienze possono essere indotte attraverso un ampio
spettro di tecniche, che l’uomo ha scoperto ed elaborato nel corso della sua
storia: dalle tecniche di deprivazione sensoriale e di mortificazione fisica, a
quelle meditative e ascetiche, sino a quelle che utilizzano, come fattori
scatenanti gli stati di transe e di possessione, la danza e il suono di
determinati strumenti musicali; ancora, le tecniche che prevedono l’uso di
piante o funghi dotati di effetti psicoattivi, per lo più di tipo allucinogeno.
Quest’ultima, ancora oggi largamente impiegata presso le società
tradizionali, rappresenta una delle più arcaiche tecniche di modificazione
dello stato di coscienza, e origina quasi certamente dalla lunga Età della
Pietra (Samorini, 1990 e 1992).
Presso le popolazioni preispaniche dell’America Centrale, è ben
documentato l’utilizzo di diverse ‘piante sacre’: il cactus peyote
(Lophophora williamsii), i semi di ololiuhqui (Rivea corymbosa),
il teonanacátl (funghi del genere Psilocybe), e varie specie di
solanacee tropaniche (Datura, Solandra, ecc.) (Diaz, 1979; Ott,
1993). Nella Siberia e nelle steppe eurasiatiche, fin dai tempi più antichi il
fungo Amanita muscaria (agarico muscario) è stato utilizzato nelle
pratiche sciamaniche (cf. es. Mantegazza, 1871, II:589-592). Il medesimo fungo
è stato proposto come l’agente psicoattivo più attendibile per il Soma
della tradizione vedica e per l’Haoma mazdeo, le sacre bevande dell’immortalità
e divinità dell’India pre-buddista e dell’Iran pre-islamico (Wasson, 1967).
Per quanto riguarda l’Europa, ricordiamo le recenti ricerche di Josep Fericgla
(1993), che è giunto all’individuazione di un utilizzo tradizionale attuale
dell’agarico muscario nella Spagna settentrionale, nelle regioni montuose
della provincia catalana. Nonostante si tratti di una residua e debole ‘traccia’
etnografica, essa avvalla l’ipotesi della non estraneità della conoscenza
delle proprietà di questo fungo presso le popolazioni europee.
La cultura greca, frutto del sinergismo culturale verificatosi fra
popolazioni di tradizione indoeuropea e popolazioni ‘autoctone’, non è
immune da questo fenomeno - la conoscenza e l’uso di vegetali psicoattivi -,
come dimostra la documentazione letteraria e quella archeologica.
In tutta la tradizione dell’antica Grecia il sacro, il divino, ci vengono
proposti come un’esperienza ‘straordinaria’, l’esperienza di un ‘altrove’
che sconvolge la coscienza ordinaria e che è, se non l’origine assoluta, per
lo meno uno dei supporti esperenziali basilari dello spirito religioso greco.
Platone distingueva due generi di ‘delirio’; quello prodotto da ‘umana
debolezza’, e quello prodotto da ‘divino estraniarsi dalle normali regole di
condotta’ (Platone, Fedro, XLVIII); quest’ultimo è attribuito all’intervento
di una divinità: l’ispirazione profetica ad Apollo, l’estasi mistica a
Dioniso, il rapimento amoroso ad Afrodite e a Eros, l’ispirazione poetica alle
Muse.
Le definizioni greche per tali fenomeni sono assai varie e, spesso,
contraddittorie, ma uno dei termini più antichi ci fornisce un’interpretazione
di questo stato di ‘eccezionalità psichica’: éntheos, ‘un dio
dentro’. L’esperienza determina cioè un contatto diretto con un essere
superiore: come si verificava ad Eleusi, nella celebrazione dei Grandi Misteri,
durante i quali avveniva la consumazione collettiva del kykeon (ciceone),
bevanda sacramentale fra i cui ingredienti si annoveravano, probabilmente,
composti psicoattivi ricavati dalla segale cornuta o ergot, un fungo parassita
dei cereali e delle graminacee in genere (Wasson et al., 1978). Questo medesimo
fungo parassita fu la fonte biochimica originaria, che portò alla scoperta dell’allucinogeno
più potente sinora noto: l’LSD (Hofmann, 1964).
Parallelamente alla conoscenza degli stati modificati di coscienza, la
letteratura e l’iconografia mitica greca danno risalto a vegetali e bevande
inebrianti associati alle divinità, e che di frequente possiedono un
significato simbolico-iniziatico: dal già citato kykeon all’alloro
delle sacerdotesse di Apollo, dal moly che Mercurio suggerisce a Ulisse
come prevenzione contro le magie di Circe al nepenthe omerico, dalla
misteriosa erba che fa diventare immortale Glauco all’alymos di
Epimenide, fino a raggiungere la vite dionisiaca.
L’ipotesi di un rapporto degli antichi Greci con i funghi psicotropi,
formulata da Gordon R. Wasson e Robert Graves, è stata approfonditamente
esaminata da Carl A.P. Ruck, che si è basato, nei suoi studi, essenzialmente
sulle fonti letterarie classiche. Vogliamo qui ricordare, che un’attenta
indagine sul rapporto fra i Greci e i funghi in genere era già stata sviluppata
da W. Houghton sin dalla fine del secolo scorso (1885), e il suo lavoro, quasi
sempre dimenticato, è stato e resta tuttora fondamentale per un serio approccio
all’etnomicologia greca.
Nella cultura greca, il documento più significativo a riprova della
consapevolezza dei funghi psicotropi risiede, a nostro avviso, in un aneddoto
tramandato da alcuni autori latini, riguardante il passaggio del trono di
imperatore, da Claudio, morto avvelenato, a Nerone, probabile responsabile, o
comunque a conoscenza dell’avvelenamento di Claudio. Tacito (Annali,
XII,67) riferisce che il veleno venne messo su dei funghi, di cui Claudio andava
ghiotto. In seguito alla sua morte, Claudio, seguendo il destino di tutti gli
imperatori, venne solennemente divinizzato. Svetonio, nella sua Vite dei
Cesari (VI,33), riferisce che, quando Nerone salì al trono, e alludendo
alla divinizzazione del suo predecessore, «prese l’abitudine di citare un proverbio greco che chiamava i funghi, con cui
Claudio era stato avvelenato, ‘cibo degli dei’ (deorum cibum)». L’analogia fra questo théon broma e un altro ‘cibo degli dei', il fungo teonanácatl delle antiche popolazioni messicane, è
significativa, tale da lasciare pochi dubbi sul significato recondito dal quale
origina, e che giustifica, questo proverbio greco; un significato di cui non
dovevano obbligatoriamente essere consapevoli Nerone e la popolazione del suo
periodo storico, nel medesimo modo in cui la stragrande maggioranza degli
Italiani che attualmente chiamano l’agarico muscario (A.muscaria) con i
nomi popolari di ‘boleto matto’ o ‘ovulo matto’, pur se buon conoscitori
dei funghi, non sono più al corrente del valore mantico originario di questi
nomi, che riporta direttamente alle proprietà psicoattive del fungo. A ragion
veduta, i coniugi Wasson hanno ipotizzato che questo proverbio greco verbalizzi
un arcaico tabù associato all’utilizzo di un fungo allucinogeno (Wasson &
Wasson, 1957, II:338).
Lo storiografo greco Pausania, nella sua Guida della Grecia, riporta
la tradizione che vedeva in Perseo il fondatore della città di Micene: «Ho anche sentito raccontare che, una volta, assetato, [Perseo] ebbe l’idea di strappare un fungo da terra; sgorgatane acqua, ne bevve e, avendone provato
piacere, diede al luogo il nome di Micene» (II,16,3).
La precisazione di ‘provare piacere’ in seguito alla bevuta dell’acqua
sgorgata dalla depressione sul terreno lasciata dal fungo, potrebbe indicare,
nel linguaggio metaforico della mitologia, le proprietà visionarie ed estatiche
del fungo in questione. Pausania fa dunque derivare la parola Mycenae (o Mykenai)
direttamente da mykes, ‘fungo’, e ancora oggi questa è l’etimologia
più largamente accettata dagli studiosi. Il fatto che il nome di questa antica
popolazione, così come quello di una delle sue più importanti città, siano
associati così intimamente con il motivo del fungo, non può indicare altro che
un rapporto affatto secondario dei Micenei con i funghi.
Apollodoro (Bibl., I,9,3) e il poeta latino Ovidio (Metam., VII,
391-393) riportano la credenza che, nei dintorni di Corinto, città dell’antica
Corinzia, i nativi che vi abitavano anticamente erano nati da dei funghi. L’origine
di capostipiti e di popolazioni umane da funghi è un tema, sebbene raro,
presente nelle mitologie di popolazioni separate fra loro da enormi distanze
geografiche (Samorini, 1994), e potrebbe originare da un arcaico valore totemico
attribuito a una determinata specie di fungo. Tuttavia, potrebbe anche essere un’indicazione,
nuovamente, di un rapporto privilegiato, ‘fondante’, di queste popolazioni
con un fungo dotato di proprietà psicoattive.
Nella tradizione classica, il dio dell’ebbrezza per eccellenza è Dioniso;
esso provocava una ‘uscita da se’ e si rivelava ai fedeli come il dio di una
vita ‘altra’.
Poiché il carattere essenziale della sua figura è quello di essere il dio
che provoca nei suoi seguaci la ‘follia mistica’, bisogna pur domandarsi
come veniva indotta questa modificazione così radicale della coscienza
ordinaria. Tradizionalmente, Dioniso ci viene interpretato come il dio della
vite e dell’ebbrezza alcolica, per lo meno nella poesia alessandrina e romana;
ma, a ben guardare, l’esperienza estatica determinata dai riti a lui dedicati
è alquanto differente dall’ebbrezza alcolica: l’alcool, come è noto, è un
depressivo del sistema nervoso centrale, non provoca, se non in casi estremi,
allucinazioni. L’estasi dionisiaca è invece caratterizzata da eccitazione
esasperata, grande vigore fisico, stati allucinatori, e identificazione mistica
con la divinità.
Appare ormai evidente che Dioniso, nella sua forma originaria,
non era un dio del vino, allo stesso modo in cui Apollo non era originalmente
associato con l'alloro delfico. Infatti, solo quando il culto di Apollo
raggiunse Delfi, sede di un antico oracolo nel cui rito questa pianta giocava un
ruolo forse determinante, il dio si inserì nell'oracolo a tal punto da
diventarne in breve tempo il suo unico patrono, e tale da eligere Delfi a sua
dimora terrena (Brelich, 1981:409 e sg.). Qualcosa di simile accadde al 'dio di
Nisa', ed è certo che la figura e le qualità di questa divinità 'straniera'
hanno subito, prima, e durante il suo tardo inserimento fra la cerchia degli dei
dell'Olimpo, più di una rielaborazione funzionale, sino a trasformarsi nel dio
del vino che conosciamo per come ce lo hanno tramandato gli autori classici.
Comunque sia, sin dalle sue origini, questa divinità era associata con dei
vegetali psicoattivi, la cui individuazione è attualmente oggetto di studi e
discussioni. La tradizione letteraria greca indica in Dioniso un dio venuto dal
nord, adorato nelle terre che aveva attraversato prima di giungere in Grecia.
Effettivamente, diversi motivi mitici lo inseriscono nelle tradizioni religiose
degli Indoeuropei, come sembrerebbe evidenziare la radice semantica del suo
nome, la cui prima sillaba è la radice designante nella lingua ariana della
divinità in genere ‘Dio-’ proviene dalla radice indoeuropea dei, di
(Devoto, 1985), indicante l’Essere Supremo, impersonale elemento di luce, che
si ritrova come radice in molti composti: Dyauspita (sanscrito), Zeus
(greco), Diupiter o Jupiter (latino). ‘Splendente’ e ‘luce’
sono anche attributi indistinti di tutti gli esseri divini, come nel sanscrito deva,
nell’antico iranico daeva, nel latino deus, nell’antico
irlandese dia, nel lituanio dievas, ecc. ‘-Nysos’ è un chiaro
riferimento a Nysa, nome della divina residenza montana situata in una terra
favolosa, nella quale il Dio sarebbe nato e sarebbe stato allevato (Inno Omerico
a Dioniso, 34,8; Pindaro, Fragm. 247), paragonabile al mitico Paese degli
Iperborei, collocato ‘oltre il vento del nord’ (Graves, 1992:112).
L’origine indoeuropea di Dioniso ci rimanda, da un lato al Soma e all’Haoma,
dall’altro alle culture eurasiatiche, presso le quali è storicamente
testimoniato l’uso dell’Amanita muscaria in contesti magico-religiosi.
V'è chi vede in Dioniso una ellenizzazione del dio traco-frigio Sabazio, il
cui culto mostra significativi paralleli con gli antichi culti dell'Haoma e del
Soma. Il culto di Dioniso, quello più arcaico, sarebbe stato un culto estatico
caratterizzato dall'utilizzo di funghi allucinogeni, nella fattispecie l'agarico
muscario (Wohlberg, 1990).
Diversi autori hanno voluto vedere nelle bevande fermentate - a base d'orzo o
di altri cereali - gli agenti psicoattivi dionisiaci precedenti il vino d'uva.
Per Jacque Brosse (1991:109), nel contesto dionisiaco «il vino non sarebbe che il punto di arrivo di una serie [di inebrianti], che
parte dal nettare divino passando attraverso la sacra pozione delle Baccanti».
Una serie di elementi porta a ritenere che Dioniso non venne ricevuto dai
Greci sotto l’identità del dio del vino. La tecnica della preparazione del
vino sembra aver raggiunta l’isola di Creta, dalle regioni del Mediterraneo
orientale, durante il periodo minoico tardo (1.700 a.C. circa), e raggiunse la
Grecia attorno al XV secolo a.C., attraverso - così pare - l’espansione e la
diffusione della cultura micenea (Unwin, 1993:59-91). D’altra parte, le forme
più antiche dei miti dionisiaci contengono scarse allusioni al ruolo che il dio
avrebbe dovuto avere, nell’introduzione o nell’invenzione del vino, e i miti
più arcaici sull’origine della vite e del vino non contemplano la presenza di
Dioniso.
Lo stesso Omero, che nelle sue opere ha evocato con una certa frequenza la
bevanda e la sua ebbrezza, non ha mai indicato in Dioniso il donatore della
pianta agli uomini: il vino che, ad esempio, Ulisse portò alla sua spedizione
presso i Ciconi del litorale tracio, non fu un dono di Dioniso, ma di Marone,
sacerdote di Apollo (Omero, Od., IX, 196-198). Nella Locride e in Etolia,
le leggende attribuiscono l’origine della viticoltura a Oresteo, figlio di
Deucalione (il ‘Noè’ della tradizione diluviana in Grecia); da Oresteo
nacque Pitio (‘l’abbondante’) che a sua volta generò Oineo (‘il
vignaiolo’), che racconti epici incoronano re di Calidone (Massenzio, 1969).
Nel libro IX° dell’Iliade (685-700), si legge di Oineo che, nell’offrire
le primizie dei raccolti nel sacrificio delle Taliste, si dimenticò di Artemide,
e fu punito con l’invio di un cinghiale che devastò le sue vigne. E’ da
notare che, in questo mito, la negligenza del ‘vignaiolo’ viene punita da
Artemide, e non da Dioniso, di cui, a parte alcune rielaborazioni tardive, Omero
non parla assolutamente. Perché? Evidentemente perché Dioniso, prima dell’istituzionalizzazione
del suo culto, non era affatto il ‘dio del vino’.
In un mito che collega il nostro dio al vino, l’episodio lascia molti dubbi
sulla qualità della bevanda. Il mito in questione narra di come Dioniso lascia
a Icario, del quale fu ospite, un vitigno, promettendo al padrone di casa che,
se avesse seguito alla lettera i suoi consigli, ne avrebbe ricavato una bevanda
fuori dal comune. Icario segue i consigli, e invita il vicinato a gustare il ‘vino
novello’: si beve, si canta. Ad un tratto, un commensale cade riverso al
suolo, un altro stramazza sul tavolo, anche i più robusti vacillano e si
mettono a gridare al maleficio e all’avvelenamento. In preda a un raptus
selvaggio, si gettano sul povero Icario e lo massacrano ferocemente (Apollodoro,
Biblioteca, III,15,7).
Se un simile evento parrebbe difficilmente giustificabile con la presenza del
solo vino, risulta impossibile farlo per il seguente racconto, tratto da quella
preziosa fonte antica che è l’opera dei Deipnosofisti di Ateneo:
«Timeo di Taormina racconta, che una
casa in Agrigento si chiamava trireme per il motivo di cui appresso. Alcuni
giovani che vi si ubriacarono, surriscaldati dall’eccessivo bere, giunsero
a tal punto di follia, da credere di navigare su di una trireme e di esser
colti da una grave tempesta in mare; e uscirono tanto fuori di senno, da
gettare dalla casa tutti i mobili e tappeti, credendo di gettarli a mare,
figurandosi che il pilota ordinasse loro di alleggerire la nave a causa
della tempesta. Adunandosi pertanto una gran folla e portando via le cose
gettate, neppure così cessarono dal loro stolto comportamento. E il giorno
seguente, giunti gli strateghi alla casa, i giovani, ancora con la nausea,
denunziati e interrogati dai magistrati, risposero che, molestati dalla
tempesta, erano stati costretti a buttare a mare il soverchio del carico.
Meravigliandosi gli strateghi del loro spavento, uno dei giovani, pur
sembrando maggiore degli altri per età, disse: "Io, signori Tritoni,
gettandomi per la paura sotto i banchi dei rematori, vi rimasi sdraiato il
più basso possibile". Perdonando pertanto quelli alla loro
aberrazione, e ammonendoli di non riempirsi più di vino, li lasciarono
andare protestando essi la propria gratitudine. [lacuna; probabilmente
riprende a parlare il più anziano] "Se liberati da tanta tempesta,
toccheremo porto, vi erigeremo in patria statue come a visibili Salvatori, a
fianco delle divinità marine, poiché ci appariste propizi". Di qui la
casa fu chiamata trireme» (Athen., Deipn.,
II,37b-e, dall’edizione a cura di G. Turturro, 1961, Adriatica, Bari).
E’ un vino molto strano, quello che distribuisce Dioniso, un vino nel quale
si mescolano vita e morte, fuoco che arde e umidità che disseta. E’ una
medicina, una ‘droga’, con la quale l’uomo oltrepassa i propri limiti,
scopre l’estasi o la follia, si trasforma in belva, proprio come Centauro nel
Palazzo di Piritoo (Omero,
Odissea, XXI,95).
Solo le esegesi più tardive e deformate, solo la successiva inerzia
interpretativa, hanno potuto considerare i miti dionisiaci come riferimenti alla
vite e al vino. Perfino in Attica le principali feste in onore a Dioniso, alle
quali si riteneva partecipasse lo stesso dio, si celebravano in date che non
avevano corrispondenza con il ciclo annuale dell’attività viticola, in
particolare nessuna di queste coincideva con la vendemmia (Guazzelli, 1992). D’altronde,
né la cultura della vite, né la vinificazione, sembrano aver dato luogo, nella
Grecia classica, a rituali particolarmente minuziosi, avendo essi
caratteristiche di magia agraria di tipo elementare; e in ogni caso, Dioniso
appare collegato ad essi e ai racconti che pretendono di spiegare l’origine
della pianta in un modo artificiale e superficiale; anzi, spesso neppure vi
figura.
Inoltre, va considerato che, nel mondo greco classico, veniva ripetutamente
raccomandato di ‘tagliare’ il vino, miscelandolo con una certa quantità d’acqua:
si riteneva che il vino bevuto puro (
ákratos) inducesse la follia. Per
François Lissargue «quest’usanza dipende sicuramente dall’altissima gradazione alcolica dovuta alla vendemmia tardiva,
effettuata quando le foglie erano già cadute (..) La bevanda che se ne ricava,
se bevuta allo stato puro, è come una droga pericolosa che può far uscire di
senno o uccidere...» (Lissargue, 1989:7).
Tuttavia, è difficile ritenere che il vino puro potesse da solo essere il
responsabile di quegli attacchi di furore, di follia e di estasi, così
frequentemente riportati nella letteratura e nella mitologia greca. Non esiste
alcun tipo di vino d’uva che possa giustificare i furori e i rapimenti delle
Menadi, le donne invasate che partecipano al corteo dionisiaco, possedute dal
dio attraverso il consumo delle sue bevande sacre. E’ più probabile, invece,
che il vino venisse impiegato come ‘liquido madre’ - dalle buone
potenzialità estrattive - nel quale fare macerare foglie, radici o semi di
piante allucinogene e di altri ingredienti psicoattivi. Non mancano riferimenti
a queste pratiche nella sterminata letteratura greca e romana (cf. es. Landerer,
1858). Basti ricordare il
nepenthe omerico, dagli effetti
tranquillizzanti, che Elena di Troia aggiunse al vino da offrire allo sposo e
agli ospiti addolorati di un banchetto (Omero,
Od., IV:220-1).
Dioniso era una divinità collegata al mondo vegetale, un fatto così
risaputo ed evidente che non necessita di particolari approfondimenti. Si è
spesso voluto riconoscere in questa associazione un passaggio dal culto dell’albero
ad una rappresentazione antropomorfica della divinità (Jeanmarie, 1972:9).
Apparentemente, la gran varietà delle piante che compongono l’erbario
dionisiaco lascia perplessi; sembra quasi un codice simbolico o segreto per
nascondere la vera identità del Dio. Ma se analizziamo le specie vegetali
associate alla sua figura, se saremo in grado di penetrare nel loro simbolismo,
forse troveremo la chiave per decifrare il ‘codice segreto’.
Innanzi tutto, l’edera, chiamata
kissós dai Greci. Plutarco riporta
che essa veniva mescolata nel vino, e che «secondo alcuni, essa contiene spiriti violenti che risvegliano, eccitano e
producono moti seguiti da convulsioni. Insomma, ispira ebbrezza senza vino, una
specie di possessione, in quanti hanno disposizione naturale per l’estasi»
(Plutarco,
Quest.Conv., III,2). Oggigiorno, l’edera è considerata
velenosa, ed è un fatto riportato che l’ingestione delle sue bacche può
indurre, insieme a disturbi digestivi quali il vomito, disturbi nervosi quali
senso di ubriachezza, delirio, allucinazioni, convulsioni. Sono stati registrati
numerosi casi di intossicazione umana accidentale, dovute - così parrebbe -
alla presenza nella pianta di eterosidi, in particolare ederina, che già in
piccole dosi si comporta come un energico vasocostrittore ed emolitico (Lanza et
al., 1980; Negri, 1979; Scheidegger & Cherbuliez, 1955). L’utilizzo delle
bacche per conseguire effetti psichici parrebbe ostacolato dall’insorgenza di
disturbi fisici anche gravi. Ma è pure possibile che gli antichi Greci avessero
trovato un modo per ridurre gli effetti tossici. Conosciamo ben poco, o nulla,
degli effetti farmacologici dei vini in cui siano stati fatti macerare i frutti
dell’edera, così come delle differenze nella composizione chimica delle
bacche nei diversi stadi di maturazione.
Alla luce del passo plutarcheo, parrebbe trovare una giustificazione la
presenza quasi ossessiva di questa pianta nelle rappresentazioni artistiche a
sfondo dionisiaco. Kerényi, a tal proposito, si domanda «perché c’è una così grande prevalenza dell’edera? In modo ancor più
radicale si pone il problema nell’arte minoica, dove il tralcio di vite non è
finora emerso neppure una volta tra le molte decorazioni vegetali delle pareti e
dei recipienti. L’edera viene usata abbondantemente (..) E’ un fatto
significativo che il dio del vino in Grecia non porti mai il nome o il
soprannome di Ampelos, ‘vite’, bensì, in Attica, quello di
kissós,
‘edera’» (Kerényi, 1992:77-8).
Il tirso (
thyrsos), ulteriore attributo di Dioniso e delle Menadi, era
costituito da un ramo cavo di una pianta umbellifera (probabilmente una ferula),
alla cui sommità era fissata una pigna. La cavità del ramo veniva riempito
dalle menadi ‘erboriste’ con le piante ch’esse raccoglievano. La presenza
della pigna riconduce al pino, una delle conifere sotto cui cresce, in
associazione obbligata, l’
Amanita muscaria. Apicio, descrivendo in un
suo passo (VII,15,6) la forma di un fungo, usa metaforicamente la parola
thyrsos
per indicare il suo gambo (Wasson et al., 1978:121). Ancora una volta, sono le
stesse fonti classiche ad avvalorare le possibili congetture etnomicologiche.
Un’altra pianta associata al culto dionisiaco è un non ben identificabile
‘pioppo bianco’, nominato da Demostene. L’oratore descrive Eschine mentre
conduce una processione di iniziati col capo agghindato con rami di
léikis
(Demostene,
Discorso della Corona, XVIII, 259 e sg.). Ma il termine usato
è assai generico, non sembra indicare nessun albero in particolare. Tuttavia,
con un semplice cambio di vocale il termine si trasforma nell’aggettivo ‘bianco’,
léykos. Se, come sottolinea Wohlberg (1990), la betulla fosse mai
cresciuta nella Grecia antica, non avrebbe potuto che chiamarsi
léikis.
E se ricordiamo che l’
Amanita muscaria cresce in relazione simbiotica
principalmente con la betulla (l’albero ‘bianco’), la relazione fra
Dioniso, l’abete e la betulla si fa ancora più interessante.
Gli effetti psicotropi dell’agarico muscario si adattano sufficientemente
alle manifestazioni che tradizionalmente sono state attribuite all’estasi
dionisiaca. Con una dose adatta del fungo essiccato, o sotto forma di infuso in
soluzione alcolica, il soggetto prova, a 20-30 minuti dall’assunzione,
sensazioni di euforia (diversa ebbrezza alcolica), leggerezza e abilità oltre
le normali capacità, aumento rilevante della forza fisica. A volte si possono
registrare nausea e vomito, ma non sembra che si siano mai verificati seri danni
con l’ingestione di questo fungo. Un altro sintomo caratteristico è l’esperienza
visiva, con la deformazione degli oggetti che possono essere percepiti o come
straordinariamente accresciuti o, al contrario, estremamente ridotti. In una
successiva fase ebbrezza, diversi testimoni riportano che l’intossicato ‘vede’
il fungo sotto sembianze umane, e che questi sembra esercitare un potere totale,
ordinando al soggetto di compiere questa o quella azione; queste testimonianze
sono riportate sull’uso del fungo nell’ambito dello sciamanesimo siberiano,
ma trovano un’interessante analogia proprio nella letteratura greca.
Nella commedia di Euripide
Le Baccanti, Dioniso e Penteo si incontrano: Penteo
minaccia di mandare contro il dio e i suoi seguaci l’esercito (:352-355), ma
poco dopo inizia a provare strane cose: vede due soli e due città di Tebe
(:918-919). Se di per se il raddoppiamento della visione può essere
attribuibile a ebbrezza alcolica, il verso successivo sgombra il campo da ogni
possibile fraintendimento. Penteo vede Dioniso contemporaneamente nella sua
forma ‘umana’ e nell’aspetto di un toro (:919-922). In altri termini, la
visione di Penteo non è solo ‘raddoppiata’, come sotto gli effetti dell’alcool;
egli percepisce sia la realtà ordinaria (Dioniso-uomo), sia quella dionisiaca (Dioniso-toro),
come sembra suggerire lo stesso Dioniso: «Ora
si che vedi quello che devi vedere» (:924).
Penteo prova inoltre un’insolita euforia, è pieno di una esagerata autostima,
e crede di essere onnipotente: è convinto di possedere una miracolosa forza
fisica che gli permette di sollevare l’intero Monte Citerone con un solo
braccio e rovesciare tutto ciò che gli sta sopra (:945-950); parla con le
proprie visioni e, contrariamente ai suoi voleri personali, segue l’ordine
impartitogli da Dioniso di spiare le Baccanti. Ciò riporta alla mente un
diffuso mito siberiano, in cui l’eroe culturale Grande Corvo è in grado di
sollevare una balena, per ricondurla in mare, solo dopo aver mangiato alcuni
spiriti
wa’paq, ovvero alcuni agarici muscari (Wasson, 1967:268).
Lo stato euforico e di vigor fisico prodotto dall’agarico muscario è stato a
volte valorizzato e culturalmente esperito come uno stato di ‘furore’; come
sembra si verificasse fra i
berserkir, i leggendari guerrieri vichinghi
che si distinguevano in battaglia per il loro coraggio e per la loro ferocia. E’
stato più volte ipotizzato che la furia di questi guerrieri fosse indotta dall’assunzione,
poco prima della battaglia, di forti quantità di
A.muscaria.
Da queste considerazioni, l’ipotesi di un utilizzo di vegetali allucinogeni
- e non del solo vino - nel culto dionisiaco, appare suscettibile di essere
seriamente presa in considerazione (più di quanto lo si sia fatto sinora). E’
possibile che nelle bevande alcoliche dionisiache (prima in quelle a base di
orzo, e poi nel vino) fossero miscelati ingredienti allucinogeni, quali il fungo
Amanita muscaria [A tale proposito, facciamo notare come, nell’attuale
utilizzo ‘ricreazionale’ di questo fungo in Italia e in Europa, vi siano
casi in cui esso viene lasciato macerare per alcuni giorni nel vino, che viene
in seguito bevuto, più per i suoi effetti allucinogeni che per quelli
alcolici].
La documentazione archeologica relativa alla cultura greca - da quella
monumentale a quella vascolare - potrebbe fornire un adeguato contributo
dimostrativo; tuttavia, la sua analisi secondo un’ottica etnomicologica è
appena iniziata, e anche quelle immagini che potrebbero rappresentare
palesemente dei funghi, vengono per lo più trascurate dagli studiosi, o al
massimo interpretate sotto il comodo, quanto grossolano, schema del ‘motivo
vegetale’.
 |
Carl A.P. Ruck (in Wasson et al., 1978) aveva già proposto un’interpretazione
micologica per alcune immagini riportate su bassorilievi e vasi attici o della
Magna Grecia. Il vaso cinerario di marmo noto come ‘urna Lovatelli’,
descritta per la prima volta da Ersilia C. Lovatelli (1879), è ornato di un
bassorilievo che ha per oggetto l’iniziazione di un uomo, probabilmente
Ercole, ai Misteri Eleusini.
Ritrovata in un sepolcro di un antico sobborgo di
Roma, quest’urna è datata ai primi periodi dell’Età
Imperiale, e si rifà, come numerose opere di quel
periodo, a una copia originale greca non pervenutaci.
In una delle tre scene (fig. 1) che si susseguono
lungo la superficie esterna dell’urna, uno ierofante
(secondo Ruck si tratterrebbe di Eumolpo, il primo
ierofante della storia eleusina) versa con una mano
del liquido sul maialino che sta per essere
sacrificato, mentre regge, nell’altra mano, un
piatto, sul quale sono evidenziati tre oggetti, che
furono interpretati dalla Lovatelli (1879:5) come
capsule di papavero da oppio, pianta sacra alle dee
eleusine. |
Particolare dell'Urna Lovatelli. Disegno da Ersilia Lovatelli, 1879 |
Secondo Ruck, lo spessore degli ‘steli’ che
sorreggono le capsule è eccessivamente grosso, e la
forma di questi tre elementi vegetali appare più
vicina a quella di un fungo (Wasson et al., 1978:105). |
Va aggiunto, che anche la parte superiore di questi elementi, quella
interpretata come ‘capsula’, possiede una forma sferica liscia, priva di
quei particolari della forma della capsula del papavero da oppio, così
abilmente riprodotti in altre opere artistiche greche. Nell’arte greca, e in
quella precedente minoico-micenea, il papavero da oppio è sempre stato
raffigurato con dovizia di particolari, anche in quei casi in cui la capsula che
si voleva rappresentare aveva dimensioni inferiori a quelle degli oggetti dell’urna
Lovatelli.
Tuttavia, Ruck lascia aperta anche la possibilità che gli oggetti in
questione - così come quelli presenti sul bassorilievo del cosiddetto ‘sarcofago
di Terra Nova’, che riproduce un’affine tematica eleusina - intendano
rappresentare delle torte di qualche tipo. A tal riguardo, è stato evidenziato
un passo di Ateneo (III,113), in cui è descritto un pane fatto con semi di
papavero da oppio, modellato nella forma di un fungo (Merlin, 1984:230). A
nostro avviso, il passo di Ateneo, piuttosto che avvalorare l’interpretazione
delle immagini qui discusse come capsule (frutti) di papavero da oppio, ne
potrebbe rafforzare proprio l’interpretazione micologica: il fatto che, in un
contesto iniziatico, dei pani siano modellati secondo la forma di un fungo, non
può essere casuale, e neppure secondario.
In un’anfora greca, datata al IV secolo a.C., proveniente dall’Italia del
Sud, e attualmente conservata al Pergamum Museum di Berlino, è rappresentata
una scena nella quale la decapitazione per opera di Perseo della Medusa Gorgone
viene posta in relazione alla raccolta di alcuni funghi, che appaiono come
frutti di un albero sacro (Wasson et al., 1978, fig. 8 e pp. 119-120).
Ricordiamo che, secondo la tradizione, Perseo fondò la città di Micene nel
luogo ove egli raccolse un fungo, e non ci si deve quindi sorprendere nell’incontrare
immagini di funghi nelle scene artistiche in cui è coinvolto questo
personaggio. Inoltre, nel mito, Perseo, dopo aver decapitato la Gorgone, ‘raccoglie’
la testa della Medusa, e in quel mentre si ode un muggito (
mykema) (Ruck,
1982:251). E’ stato fatto notare che fra le parole
mykema (‘muggito’)
e
mykes (‘fungo’) v’è una somiglianza che potrebbe essere stata
utilizzata come gioco di parole nella descrizione di differenti scene
mitologiche a carattere iniziatico (Wasson et al., 1978:118-9).
In diversi siti archeologici greci sono stati ritrovati, a mo’ di ‘lapidi’
tombali, degli oggetti in pietra, che sono stati per lo più interpretati come
simboli fallici. Tuttavia, secondo D. Kurtz e J. Boordman (1971, cit. in Wasson
et al., 1978:122), la forma di questi oggetti non corrisponde a quella di un
fallo, le cui caratteristiche venivano sempre ben evidenziate nell’arte greca,
bensì, più propriamente, a quella di un fungo. Ci troveremmo, quindi, in
presenza di un altro esempio nel quale gli studiosi avrebbero scambiato per
simboli fallici dei veri e propri
mushroom-stones; come si è verificato
in Guatemala, dove per diversi decenni gli archeologi della cultura Maya
scambiarono per emblemi fallici degli oggetti in pietra, dall’evidente forma
fungina, sino al momento in cui, con la scoperta dell’uso tradizionale dei
funghi allucinogeni in quella regione, i dati etnografici chiarirono la funzione
di quelle pietre-fungo (Mayer, 1977).
Accanto a questi documenti archeologici, presentati e discussi da Wasson e
Ruck, ne esistono altri - che presentiamo in questa sede - per i quali l’interpretazione
etnomicologica appare degna di essere presa in considerazione.

La figura 2 riproduce un bassorilievo proveniente
da Farsalo, in Tessaglia, datato al primo quarto del V
secolo a.C., conservato al Museo del Louvre a Parigi.
Le due figure femminili rappresentano Demetra e
Persefone, le due dee eleusine; esse tengono fra le
mani alcuni oggetti, nell’atteggiamento di
mostrarseli reciprocamente. Secondo Hellmut Baumann
(1993:12), le due dee sono raffigurate nell’atto di
scambiarsi dei fiori. In realtà, l’oggetto tenuto nella mano dalla
figura posta alla destra della scena, evoca più
facilmente la forma di un fungo, piuttosto che quella
di un fiore.
Anche il modo in cui l’oggetto viene tenuto in mano, stringendo fra due dita
la parte inferiore del suo ‘gambo’, ricorda quello con cui si è soliti tenere
un fungo fra le dita, con lo scopo di renderlo ben visibile. La figura di sinistra
parrebbe tenere nella mano sinistra un oggetto dalla forma fungoide simile alla
precedente, stretto fra le dita nel medesimo modo, ma leggermente inclinato
verso di essa. L’oggetto che la medesima figura tiene con la mano destra, di
forma differente, rimane di difficile interpretazione. La forma del fungo che
le due dee parrebbero mostrarsi o scambiarsi, le dimensioni e la forma conico-campanulata
del cappello, ricordano da vicino specie di
Psilocybe o, ancor meglio,
di
Panaeolus, fra le quali si annoverano specie allucinogene, di tipo
psilocibinico, presenti anche in Europa, compresa la Grecia. Ricordiamo che
diverse specie di
Panaeolus sono stercorarie, ovvero crescono
in diretta ed esclusiva associazione con gli escrementi di bovini, equini, e
di altri quadrupedi selvatici (Festi, 1985; Guzmán, 1983; Ola’h, 1969; Samorini,
1993). Inoltre, Ruck (in Wasson et al., 1978:122) ha riportato un importante
dato etnomicologico: oggigiorno, in alcune regioni della Grecia, sono conosciute
dalla popolazione specie di funghi allucinogeni differenti dall’agarico muscario,
chiamati con il nome di "funghi folli". Sono riconosciuti come inebrianti,
e non come velenosi, "inebrianti come il vino, sebbene in una maniera completamente
differente".
Numerose rappresentazioni vascolari greche, dal tema
dionisiaco, riportano immagini di viti e di grappoli
di uva pendenti. In alcuni casi, la forma dei grappoli
d’uva si avvicina maggiormente a quella di un fungo,
piuttosto che a quella di un grappolo d’uva, e ciò
risalta maggiormente quando il ‘grappolo d’uva’ è
rappresentato come simbolo isolato.
E’ il caso della brocca a figure rosse, proveniente
dalla tomba 235 della necropoli etrusca di Spina (Valle
Trebba), riportata in figura 3, ora custodita nel
Museo Archeologico Nazionale di Ferrara. Sebbene rinvenuta
in una tomba etrusca, la brocca è di manifattura apula,
ed è stata datata attorno alla metà del IV secolo
a.C.. Il centro della scena è occupato da una figura
femminile, che sostiene con la mano destra una cista,
sacro parafernalia dei culti misterici.
L’immagine posta sotto il braccio destro della figura femminile, interpretata
anch’essa come un grappolo d’uva (cf. Oliva E. Ghiandoni, in Berti & Gasparri,
1989:110), porta in realtà, nella sua forma, più evidenti caratteristiche fungine.
L’insieme di macchie puntiformi al suo interno, sebbene diffuse anche nel ‘gambo’,
induce una diretta associazione con l’
Amanita muscaria.
Osservando le rappresentazioni vascolari nelle quali viene riportato questo
simbolo, se ne ricava l’impressione che l’interpretazione del grappolo d’uva,
sebbene certamente corretta per numerosi casi, sia stata estesa arbitrariamente
per diversi altri, in cui le caratteristiche del grappolo d’uva vengono meno,
offrendo maggiori possibilità all’interpretazione micologica. In effetti, nell’interpretazione
di noti e ripetuti simboli rappresentati sui documenti archeologici, troppo
spesso gli studiosi si appoggiano a letture di questi simboli generalmente accettate,
forse per non colpire la suscettibilità di chi, a volte più di cento anni prima,
ne stabilì una lettura iniziale, o forse più semplicemente per pigrizia e abitudine
interpretative.
Ne sono un esempio le immagini dei grappoli d’uva
rappresentati sul bassorilievo in terracotta del VI
secolo a.C., conservato nel Museo Archeologico Nazionale
di Reggio Calabria e riprodotto in figura 4 (cf. anche
Camilla, 1993:35). Nella scena sono rappresentati
Demetra e Dioniso, posti l’uno di fronte all’altro,
nell’atto di mostrarsi o scambiarsi i rispettivi ‘sacramenti’:
una spiga di cereale e una coppa di ‘vino’. Dioniso
porta sulla spalla sinistra un tralcio di vite, sul
quale sono appesi - oltre alle foglie - cinque grossi
grappoli d’uva. La forma anomala di questi grappoli,
e la ‘punteggiatura’ regolare di cui è cosparsa la
loro superficie, sembrerebbero volutamente ricordare
l’agarico muscario.
In quali casi questo simbolo intendeva rappresentare un grappolo d’uva, e in
quali invece un fungo? Potremmo essere in presenza di un caso di fusione di
due simboli, entrambi ben probabili attributi di Dioniso. Come sopra riportato,
è ipotizzabile una conoscenza, nella cultura greca, delle proprietà psicoattive
dell’A.muscaria; una conoscenza di origine arcaica, più arcaica di quella
del vino, probabilmente mantenutasi, in seguito, solo in determinati ambienti
sociali, mentre in altri questa lasciava già il posto alla nuova (o, a una più
nuova) cultura del vino.
Ecco quindi che, dal personale grado di consapevolezza dei pittori autori delle
opere vascolari pervenuteci, potrebbe dipendere il significato inteso di questi
simboli: grappoli d’uva, funghi e, in alcuni casi ben evidenti, entrambi i simboli,
uno internamente all’altro. Karol Kerényi ha sottolineato il fatto che «.. i vasai e i pittori di vasi conoscevano più dettagli di chiunque altro» (1992:148).
Il kántharos biansato è il vaso di Dioniso per eccellenza,
segno iconografico distintivo del dio, e v’è chi ha ravvisato un indizio di
Dioniso protettore dei ‘suoi’ vasai, da un passo di Pausania (Guida della
Grecia, I,3,1) relativo alla descrizione di Atene, dove si afferma che il
quartiere dei vasai, chiamato Ceramico, deriva il suo nome dall’eroe Ceramo,
figlio di Dioniso e di Arianna (Lissargue, 1989:24). Quindi, la divinità dei
vasai sarebbe stata proprio Dioniso, ed è possibile che numerosi fra questi
fossero iniziati ai misteri dionisiaci.
Forse, alcuni pittori ‘sapevano’ ciò che altri non conoscevano, e hanno volutamente
nascosto la loro conoscenza dietro a schemi interpretativi già a quei tempi
largamente e abitualmente riconosciuti, producendo immagini a doppia lettura,
l’una sacra e l’altra profana.
Bibliografia
BAUMANN H., 1993, Greek Wild Flowers and plant lore in ancient Greece.
London, Herbert.
BELLINGER G.J., 1989, Enciclopedia delle religioni, Milano, Garzanti.
BERTI F. & C. GASPARRI, 1989, Dionysos. Mito e Mistero, Bologna,
Nuova Alfa Editoriale.
BRELICH A., 1981, Paides e Parthenoi, Roma, Edizioni dell’Ateneo.
BROSSE J., 1991, Mitologia degli alberi, Milano, Rizzoli.
CAMILLA G., 1993, Universalità dell’esperienza psichedelica, Altrove,
Torino, 1:31-40.
DEVOTO G., 1985, Avviamento all’etimologia italiana, Milano, Mondadori.
DÍAZ J.L., 1979, Ethnopharmacology and Taxonomy of Mexican Psychodysleptic
Plants, J.Ethnopharm., 11:71-101.
FERICGLA J., 1993, Las supervivencias culturales y el consumo actual de Amanita
muscaria en Cataluña, in: Atti 2° Convegno Nazionale sugli Avvelenamenti
da Funghi, Rovereto, 3-4 aprile 1992, Ann.Mus.Civ.Rovereto, Suppl.,
8:245-256.
FESTI F., 1985, Funghi allucinogeni. Aspetti psicofisiologici e storici,
LXXXVI pubbl. dei Musei Civici di Rovereto, Rovereto.
GRAVES R., 1992, La Dea Bianca, Milano, Adelphi.
GUAZZELLI T., 1992, Le Antesterie, Firenze, Firenze Libri.
GUZMAN G., 1983, The Genus Psilocybe, 74° pubbl. Nova Hedwigia, Vaduz,
Cramer.
HOFMANN A., 1964, Die Mutterkornalkaloide, Stuttgart, Ferdinand Enke.
HOUGHTON W., 1885, Notices of Fungi in Greek and Latin Authors, Ann.&
Mag.Nat.Hist., 15, 5° ser., :22-49. Cf. anche l’Addendum riportato nel
medesimo volume, a pp. 153-4.
JEANMARIE H. (Ed.), 1972, Dioniso, Torino, Einaudi.
KERENYI K., 1992, Dioniso, Milano, Adelphi.
LANDERER X., 1858, Della preparazione dei vini medicinali dei Greci antichi
e dei Romani, Ann.Chim.Appl.Med., vol. 27(3°s.):129-130.
LANZA J.P. et al., 1980, Actions toxique et pharmacodynamique sur le rat
d’extraits de lierre grimpant (Hedera helix L.), Pl.Méd.Phytothér.,
14:221-229.
LISSARGUE F., 1989, L’immaginario del simposio greco, Roma-Bari, Laterza.
LOVATELLI E.C., 1879, Un vaso cinerario di marmo con rappresentanze relative
ai Misteri di Eleusi, Bollettino della Commissione Archeologica Comunale
di Roma, :1-16.
MANTEGAZZA P., 1871, Quadri della natura umana. Feste ed ebbrezze,Milano,
Brigola, 2 voll.
MASSENZIO M., 1969, Cultura e crisi permanente: la "xenia" dionisiaca,
Studi e Materiali di Storia delle Religioni, 40:27-113.
MAYER K.H., 1977, The Mushroom Stones of Mesoamerica, Ramona, California,
Acoma.
MERLIN M.D., 1984, On the Trail of the Ancient Opium Poppy, London
& Toronto, Association University Press.
NEGRI G., 1979, Nuovo erbario figurato, Milano, Hoepli.
OLA’H G.M., 1969, Le genre Panaeolus, Rev.Mycol., Mém.hor. Ser., n.
10, Paris.
OTT J., 1993, Pharmacotheon. Entheogenic drugs, their plant sources and
history, Kennewick, WA, Natural Products.
OTTO W.F., 1990, Dioniso, Genova, Il Melangolo.
RUCK C.A.P., 1982, The Wild and the Cultivated: Wine in Euripide’s Bacchae,
J.Ethnopharm., 5:231-270.
SAMORINI G., 1990, Sciamanesimo, funghi psicotropi e stati alterati di coscienza:
un rapporto da chiarire, Boll.Camuno St.Preist., 25/26:147-150.
SAMORINI G., 1992, The oldest representations of hallucinogenic mushrooms
in the world (Sahara desert, 9000-7000 B.P.), Integration, 2/3:69-78.
SAMORINI G., 1993, Funghi allucinogeni italiani, in: Atti del II° Convegno
Nazionale sugli Avvelenamenti da Funghi, Rovereto, 3-4 aprile 1992, Ann.Mus.Civ.Rovereto,
Suppl. vol. 8:125-150.
SAMORINI G., 1994, Miti sull’origine delle piante psicoattive, in
pubbl.
SCHEIDEGGER J.J. & E. CHERBULIEZ, 1955, L’hédéracoside A, un nouvel hétéroside
extrait du lierre (Hedera helix L.), Helv.Chim.Acta, 38:547-556.
UNWIN T., 1993, Storia del vino, Roma, Donzelli.
WASSON R.G., 1967, Soma. Divine Mushroom of Immortality, New York,
H.B. Jovanovich.
WASSON V.P. & R.G. WASSON, 1957, Mushrooms, Russia & History,
2 voll., New York, Pantheon Books.
WASSON R.G., A. HOFMANN & C.A.P. RUCK, 1978, The Road to Eleusis.
Unveiling the Secret of the Mysteries, New York & London, H.B. Jovanovich.
WOHLBERG G., 1990, Haoma-Soma in the World of Ancient Greece, J.Psychoact.Drugs,
22:333-342.